L’età della disuguaglianza

La disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza è ai suoi massimi storici, scrive il Fmi nell’ultimo numero del suo magazine.

Negli Stati Uniti, nel 2012, il 10% dei cittadini più ricchi possiede il 50% della ricchezza nazionale “un livello mai visto sin dagli anni ’20”, sottolinea l’articolo per dare la giusta dimensione storica del fenomeno.

Gli anni Venti, lo ricordo, furono quelli ruggenti del boom creditizio, cui seguì lo sboom deflazionario degli anni ’30.

Come se non bastasse, il Fmi cita uno studio dell’Ocse secondo il quale la disuguaglianza è aumentata, negli ultimi tre anni, assai più che nei dodici anni precedenti al 2010. A dimostrare che la crisi funziona benissimo a dare a chi ha già tanto e a togliere a chi ha poco.

Ma sbaglierebbe chi pensasse che è un fenomeno transitorio. Che, vale a dire, passata la crisi tutto tornerà come prima.

L’età della disuguaglianza non è un semplice incidente di percorso.

Al contrario, è il prezzo che le economie avanzate stanno pagando, e pagheranno anche in futuro, per aver seguito una precisa strada, quella che ancora oggi costituisce il mainstream economico del nostro tempo: la liberalizzazione dei capitali e, a seguire, il consolidamento fiscale, che come tutti sanno è stata una precisa conseguenza di tale pratica.

A tale considerazione è arrivato anche il Fmi.

“Numerosi fattori – scrivono gli autori dell’articolo – hanno contribuito a questa crescita (della disuguaglianza, ndr). L’evoluzione tecnologica, che ha dato vantaggi a chi lavora con i computer e l’information tecnology, e l’evoluzione della produzione industriale che si è spostata dai lavoratori poco qualificati a quelli molto qualificati”, con la conseguenza che l’aumento della domanda per i secondi ha depresso i redditi dei primi.

“Ma le nostre ricerche recenti – aggiungono – hanno scoperto altri due fattori che hanno contribuito a far crescere la disuguaglianza. Il primo è stato l’apertura del mercato seguita alla liberalizzazione dei movimenti di capitale. La seconda è l’azione politica dei governi tesa ad abbassare i propri budget”.

Il tanto declamato consolidamento fiscale.

L’austerity, insomma, ha cancellato una delle funzioni della spesa pubblica, ossia il suo carattere redistributivo.

Che questo trend sia ormai divenuto un fatto storico lo dimostrano anche due grafici elaborati dagli autori.

Nel primo si vede che la curva che misura l’andamento della liberalizzazione dei capitali cresce insieme alla curva che misura il coefficiente di Gini, ossia l’indice che misura la diseguaglianza.

Quest’ultimo si misura nell’intervallo fra zero (massima uguaglianza) e 1, nessuna uguaglianza. Alla fine degli anni ’80 l’indice di Gini misurava circa 0,40. Nel 2010 aveva già superato 0,45. E dopo è ancora peggiorato.

Allo stesso tempo la curva che misura l’indice di liberalizzazione dei capitali è sempre cresciuta, passando da un valor di circa 0,8 all’1,5 di fine 2010.

“L’indice di Gini – scrivono – è cresciuto di circa l’1,5% dopo l’inizio della liberalizzazione e del 2% dopo cinque anni”.

Questo per gli amanti delle costruzioni empiriche.

“Ci sono molti canali attraverso i quali l’apertura del mercato dei capitali impatta sulla diseguaglianza – scrivono -. C’è la prova che l’impatto della liberalizzazione sulle differenza salariali è alta nelle industrie che dipendono dai finanziamenti esteri”. Che in un mondo il cui il capitale è globalizzato signifca praticamente tutte.

Il consolidamento fiscale ha aggiungo benzina al fuoco.

Il combinato disposto fra tagli di spesa e aumenti di tasse, chiesti a gran voce per abbassare i deficit pubblici ha avuto un effetto diretto sulla disuguaglianza.

“Negli ultimi trent’anni – scrivono – ci sono stati 173 episodi di consolidamento fiscale nelle 17 economie da noi considerate. C’è la chiara evidenza che il declino dei budget pubblici è stato seguito da un aumento della disuguaglianza”.

In particolare, “il coefficiente di Gini è aumentato dello 0,2% due anni dopo un consolidamento fiscale e dell’1% dopo otto”.

Quindi gli effetti di un consolidamento fiscale sulla disuguaglianza durano anche nel medio-lungo periodo. Specie se il consolidamento avviene durante un periodo di recessione che, aumentando il rapporto debito/pil rende necessario un ulteriore consolidamento.

Che è esattamente la situazione in cui ci troviamo noi e mezzo mondo.

La conclusione dei due autori è molto salomonica. Capitali liberi e deficit sotto controllo portano molti vantaggi, ma hanno lo svantaggio di aumentare la disuguaglianza. Da qui l’invito ai governi a studiare bene le propri azioni per provocare effetti redistributivi, pur nei vincoli che abbiamo detto. Principalmente promuovendo l’educazione scolastica per alzare il livello di skill dei lavoratori.

Fin qui il Fondo monetario.

Se volessimo fare una capatina in casa nostra, però, potremmo leggere uno studio recente della Banca d’Italia dedicato proprio al tema della disuguaglianza del reddito in Italia. Il paper è particolare perché è stato costruito sulla base delle sole dichiarazioni del redditi.

Alcune cose è facile immaniginarle. Tipo che al Sud la diseguaglianza è assai più alta che al Nord (indice di Gini  a 0,4 medio al Sud a fronte di 0,37 medio al Nord), che ci sono profonde differenza fra centri urbani (più sperequati) e province, o che è aumentata parecchio dal 2010 in poi. Altre vale la pena sottolinearle.

In particolare Bankitalia scrive che “gli anni duemila sono stati interessati da una sostenuta crescita dell’indebitamento delle famiglie e delle imprese. Nel 2010 i prestiti alle famiglie in rapporto al reddito erano pari al 65%, 30% in più rispetto al 2000; il debito delle imprese in rapporto al Pil era superiore all’80%, in marcato aumento rispetto al 2000”.

Un altro effetto della liberalizzazione dei capitali.

Negli anni 2000, infatti, in Italia sono affluiti un sacco di soldi dall’estero, segnatamente dai paesi forti dell’euro. “Il maggiore ricorso al credito da parte del settore privato – nota – potrebbe aver influenzato la distribuzione del reddito”.

Se poi andiamo a vedere alcuni grafici, notiamo alcune cose:

1) La quota di reddito detenuta dal 10% più ricco in Italia ha sfiorato quota 35% nel 2007 per poi stabilizzarsi poco sotto, intorno al 33%, il più alto dal 1975. Nei primi anni ’80 era poco sopra il 25%, dopo cioé la grande redistribuzione che si è consumata nella seconda metà degli anni ’70. Da quel momento in poi la quota di reddito dei più ricchi cresce costantemente;

2) la quota della rendita, sul totale dei redditi, è più che raddoppiata dagli anni ’80 ad oggi. Questa rendita non comprende i redditi da capitale, classificati a parte che comunque sono leggermente cresciuti. Cresciuta altresì la quota del lavoro autonomo.

Quindi, nel caso nostro, la liberalizzazione dei capitali ha, di fatto, favorito innanzitutto la rendita. Il reddito da impresa si è addirittura ridotto.

Concludo con un’ultima notazione. L’Ocse ha rilasciato l’ultimo report dedicato alle pensione dove, fra le altre cose, mette in evidenza che nel nostro paese le condizioni diseguali di lavoro possono condurre a una futura generazione di pensionati che saranno poveri in canna.

La differenze di ricchezza, insomma, sono destinate ad aumentare, anche perché all’orizzonte non si vede nessun tipo di retromarcia sulle politiche che le hanno determinate.

L’indice di Gini, insomma, è destinato a crescere.

La disuguaglianza non è più un incidente della storia.

E’ la Storia.

Un Commento

  1. Mauro Poggi

    Buongiorno Maurizio.
    Per ovviare al gap schizofrenico tra i contenuti di alcuni papers pubblicati dal FMI e le politiche economiche che i suoi dirigenti continuano a imporre, sotto il titolo di ogni studio non manca mai l’avvertenza che il contenuto dello stesso non riflette necessariamente l’opinione del Fondo.
    Un buon modo per dire: noi siamo abbastanza democratici da pubblicare anche analisi sgradite, ma non abbastanza democratici per tenerne conto.

    PS: Ottimo articolo, al solito. Se posso permettermi un’osservazione: non hai linkato le fonti a cui ti riferisci, ciò che sotto il profilo netiquette è una negligenza non trascurabile 🙂

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    • Maurizio Sgroi

      salve,
      hai ragione riguardo ai link, però cito sempre la fonte e do anche i riferimenti in modo da facilitare il recupero dell’originale. la mia negligenza, spero scusabile, nasce dal fatto che non mi piace portare a spasso i lettori in giro per il web. credo sia una pratica che non favorisce l’attenzione. è un mio limite, ma nessuno è perfetto. tantomeno io 🙂
      grazie per il commento

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