L’insostenibile leggerezza della sostenibilità previdenziale

Fra le tante paroline magiche che popolano il nostro discorso pubblico, merita una menzione speciale il motto “sostenibilità”. Usualmente questa parola accompagna qualunque ragionamento che abbia a che fare con i debiti. Un debito è sostenibile quando possiamo permetterci di tenercelo sul groppone per un tempo più o meno lungo. Ed è tanto più sostenibile, quanto più noi siamo credibili. Quando si parla di pensioni, ad esempio, la sostenibilità è riferita alla capacità del sistema previdenziale di onorare i suoi impegni nel tempo. Quindi pagare le pensioni.

Ciò spiega perché il governo, nell’ultima riforma delle pensioni, abbia indicato la sostenibilità, addirittura per i prossimi 50 anni, fra i requisiti cui hanno dovuto adeguarsi le casse di previdenza private. Bilanci tecnico-attuari alla mano, le casse hanno dovuto dimostrare di essere in grado di pagare le pensioni fino al 2060 o giù di lì. Poi i ministeri vigilanti li hanno valutati e hanno concluso, nel novembre scorso, che sì: le casse private hanno una previdenza sostenibile. 

Ciò ha evitato loro la tagliola del contributivo secco e del contributo di solidarietà previsto nel decreto Salva Italia (quello che decise l’ennesima riforma delle pensioni) per le casse che non soddisfacevano questo requisito. Tutti contenti, paura finita.

Senonché, come si dice, il diavolo si nasconde nei dettagli. O, nel nostro caso, nei requisiti fissati dalla legge per ottenere il bollino blu della “sostenibilità”. Uno di questi, per esempio, è che il rendimento del patrimonio della cassa, sia mobiliare che immobiliare, sia fissato in via prudenziale al 3% l’anno. Poi ci sono l’andamento del Pil, il rapporto fra iscritti e contributori, quindi l’andamento del mercato occupazionale, e la variabile demografica.

Dovrebbe essere chiaro a tutti che previsioni a così lungo termine su aspetti macroeconomici tanto rilevanti sono di per sé un azzardo. Per questo esistono gli attuari che, sulla base delle informazioni disponibili al momento, elaborano modelli matematico-statistici per redigere i bilanci tecnici. Quello che non è chiaro a tutti è che questi bilanci attuari non regalano certezze, ma solide probabilità.

In pratica, per compilarli, si usa quell’approccio stocastico che ha creato disastri inenarrabili nel settore finanziario. Ricordate le famose obbligazioni tripla A con dentro i mutui immobiliari? Bene, la valutazione delle agenzie di rating, in base alla quale si emetteva il merito di credito, era legata a un calcolo delle probabilità, ossia quella che una controparte facesse default. Più bassa era questa probabilità, più era alto il merito di credito.

Dovrebbe essere chiaro a tutti che il futuro non lo conosce nessuno. Eppure questi modelli probabilistici dissimulano tale incertezza con l’estrema sofisticazione, per cui è facile cascarci. Quello che non è chiaro a tutti è che la risposta più onesta alla domanda “è sostenibile il nostro sistema previdenziale da qui a 50 anni” è: forse.

O, meglio ancora: speriamo.

Già, perché c’è molta speranza nel sussumere un rendimento implicito di un patrimonio al 3% da qui a 50 anni, senza peraltro che la normativa abbia previsto la verifica a posteriori di tale ipotesi. La conseguenza è che nel successivo bilancio tecnico-attuariale si potranno utilizzare tali ipotesi di rendimento anche quando, alla prova dei fatti, si sono rivelate infondate. In tal modo si crea una realtà futura virtuale basata su tassi di rendimento che la realtà reale ha smentito.

Qual è la conseguenza? Che in pratica si creano aspettative previdenziali di un certo livello che poi si trasformano in diritti acquisiti immodificabili per gli iscritti alla cassa. Se tali aspettative, poi, non vengono coperti dai rendimenti previsti, come in passato è quasi sempre successo, la Cassa rischia il dissesto. E finisce che deve intervenire lo Stato.

E qui si apre il secondo capitolo. L’intervento dello Stato non fa altro che aumentare il deficit previdenziale, che è già un fardello non indifferente. La previdenza pubblica, secondo l’ultima relazione pubblicata dalla commissione bicamerale di controllo sugli enti previdenziali il 21 dicembre scorso, ha un indice di copertura di circa il 73,07%.

Inps, Inpdap, Ipost ed Enpals (peraltro ormai tutti unificati dopo la riforma Fornero) hanno generato nel 2010 un flusso di entrate contributive di 207,874 miliardi di euro, a fronte di prestazioni pensionistiche per 284,459. Quindi lo Stato ha dovuto integrare la differenza con fondi propri (76,585 miliardi). E purtroppo tale deficit è aumentato nei due anni successivi.

Stando così le cose, il deficit previdenziale finisce con l’avere effetti diretti sul deficit pubblico. Attaccando con leggerezza l’etichetta di sostenibilità ai conti previdenziali si rischia di rendere insostenibile (rectius non credibile) il bilancio dello Stato.

Ciò spiega perché la riforma delle pensioni sia tanto piaciuta ai nostri creditori internazionali. E spiega pure perché puntare sulla sostenibilità previdenziale giovi così tanto alla causa della credibilità dei nostri conti pubblici. Figuratevi che panico se le ipotesi tecniche messe nel bilancio attuario delle Casse private (che hanno una lunga storia problematica alle spalle) finiranno con l’essere smentite dai fatti. Dovremmo sommare il deficit previdenziale privato a quello pubblico. Già ci immaginiamo lo spread. Come minimo servirebbe un’altra riforma delle pensioni.

Peraltro è già successo. Negli ultimi vent’anni ci sono state una quindicina di sedicenti riforme delle pensioni, e ogni volta esperti, economisti, giornalisti, ci dicevano, salvo poi essere smentiti dai fatti, che il nostro era il sistema previdenziale più sostenibile del mondo.

E lo dicevano con la consueta, insostenibile, leggerezza.

Un Commento

  1. Estela

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